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Autore/i: Carlo Bonfantini
Parole chiave: Resistenza, Mario Bonfantini, Deportazione, Campo di Fossoli, Novara
Come citare questo articolo: Carlo Bonfantini, Un salto nella Resistenza, in “I Luoghi della storia nel Novarese e nel Verbano-Cusio-Ossola”, A. 1 – N. 2/2024
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Un salto nella Resistenza
Il testo sotto riportato è stato letto dall’autore in occasione dell’incontro “Mario Bonfantini 45 anni dopo”, tenutosi il 21 dicembre 2023 presso la Biblioteca Negroni di Novara nell’abito del ciclo “I giovedì letterari in biblioteca”. Alla presentazione erano presenti anche Elena Mastretta e Roberto Cicala, che ha portato il suo ricordo da editore della scrittura di Mario. Nell’occasione nella sala in cui si è svolta la conferenza era stata allestita una mostra fotografica con immagini del manoscritto originale di Un salto nel buio, conservato presso l’archivio dell’Istituto storico della resistenza e della società contemporanea nel novarese e nel Verbano Cusio Ossola “Piero Fornara”.
Vorrei iniziare questa presentazione ricordando Massimo Bonfantini, mio padre, scomparso nel febbraio del 2018.
Infatti, fino per l’appunto a qualche anno fa, sarebbe stato lui a parlarvi da questo tavolo e a illustrarvi con la sua inesauribile parlantina e la sua enciclopedica cultura umanistica i temi, le storie, le riflessioni contenute nel Salto nel buio. E io, come mi capitava di frequente, lo avrei accompagnato o gli avrei fatto da semplice spalla, come si usa dire nel linguaggio dello spettacolo e del teatro.
E mi sembra doveroso in quest’occasione, e mi fa anche un grande piacere, ricordare la sua oserei dire quarantennale collaborazione con l’Istituto della Resistenza di Novara, prima sotto la direzione di Mauro Begozzi e poi di Gianni Cerutti. E ringrazio l’attuale direttrice dell’Istituto, Elena Mastretta, che mi ha invitato a questa bella iniziativa.
Io oggi raccolgo il testimone da Massimo e vi dovrete accontentare di un oratore sicuramente dalla minore verve comunicativa e dalla ben minore erudizione culturale. Ho usato il termine “testimone” e ne approfitto pertanto per citare l’amico Roberto Cicala, oggi anche lui presente a questo tavolo, che è un testimone di prima mano, un protagonista senza dubbio, della terza ristampa del Salto nel buio realizzata da Interlinea nel 2005. Un’edizione, che se non supera per bellezza estetica la prima, quella cartonata di Feltrinelli dell’ottobre del 1959, con l’efficacissima copertina bicromatica – rossonera – che graficamente riproduce il momento del salto dal treno di Mario, è tuttavia quella di assoluto riferimento per la completezza dell’apparato critico.
E in quell’occasione Roberto ebbe modo di realizzare una delle tante collaborazioni con Massimo, che infatti stese la “Notizia biobliografica” su Mario, che chiude il volume.
Dovete scusare questa insistenza sul termine “testimone”, ma nel preparare il mio intervento mi è sembrato progressivamente assumere un significato e un’importanza sempre maggiori. È infatti una parola che ha una pluralità di significati, che mi appaiono tutti assolutamente appropriati al nostro argomento.
C’è infatti un passaggio di testimone generazionale: tra me e mio padre, ma che prima aveva altrettanto naturalmente riguardato Massimo e Mario.
Nel nostro caso però il testimone non è solo una metafora, un concetto figurato, ma è davvero, come in atletica leggera, un oggetto. Il libro di Mario, che passa, materialmente e intellettualmente, di mano in mano… di noi parenti stretti, degli amici e spero anche di non pochi lettori nel corso degli anni.
Infine, il testimone primo, in carne e ossa, da cui trae origine questa catena di passaggi, è Mario. È lui, per nostra fortuna, che a un certo punto della sua vita ha sentito l’esigenza di fissare sulla carta un brevissimo arco temporale della propria esistenza, solo 8 giorni di fine giugno del 1944, che però ne avevano segnato indubbiamente il destino personale. È forse superfluo ricordare che Mario, saltando dal treno piombato in corsa che conduce lui e gli altri prigionieri in Germania, si sottrae alla detenzione nei campi di concentramento e può di conseguenza, tornato alla libertà e alla clandestinità antifascista, partecipare da protagonista alla cosiddetta repubblica partigiana dell’Ossola nel settembre di quello stesso 1944.
Mario pubblica il suo libro a quindici anni di distanza dagli avvenimenti. È come se invece dell’urgenza di raccontare, sentita da non pochi partecipanti alla Resistenza, abbia scelto, consapevolmente o meno, la necessità di ricordare. Cioè tornare sui fatti passati, carichi di tensione drammatica, a distanza di anni, forse per dominarli con la maggiore serenità che viene dal tempo trascorso, ma sicuramente – almeno questo è il mio giudizio – anche per ricordare paradossalmente meglio, con una maggiore chiarezza, comprensione e partecipazione.
Da questo punto di vista il primo capitolo dell’opera è un esempio illuminante. Nelle sue 13 pagine e mezzo dell’edizione Interlinea, che ne fanno il più lungo dei venti agili capitoli complessivi in cui è diviso Un salto nel buio, Mario compie un autentico tour de force per presentare nuovamente a sé e a noi lettori gli occupanti del capannone del campo di prigionia di Fossoli dov’era rinchiuso.
In una carrellata cinematografica da consumato sceneggiatore e abile scrittore qual era, senza sforzo tratteggia con velocità e umanità il ritratto fisico e caratteriale di una trentina circa di compagni antifascisti di prigionia e di altri anonimi: “l’ingrassato e un po’ imborghesito” Oliero; il “più snello Acciarini, che non aveva perduto l’originaria asciuttezza toscana”; Pietro Bianco, “il sedicenne di Somma Lombardo da me [Mario] adottato lì al campo”; “Salzani, il dottorino che un giorno, assalito dai pidocchi, si era messo a piangere”; “l’educato Valcarenghi”; “il nervoso Pieraccini e il robusto e pacifico Grandini”… Mi devo fermare, ma citerò ancora almeno l’azionista Gigi Martello, di cui Mario scrive di essere diventato “immediatamente amico indivisibile” per via della sua “spensieratezza insommergibile”, un atteggiamento caratteriale in fin dei conti così simile all’energico, agonistico ottimismo proprio di Mario.
Mi chiedo: se Mario avesse steso il suo libro immediatamente finita la guerra, questo primo capitolo lo avrebbe scritto così? O forse addirittura non lo avrebbe scritto per niente e avrebbe iniziato in medias res, cioè con quello che è il secondo capitolo del libro, che si apre con la descrizione dei 400 prigionieri tratti dai capannoni della “Sezione politici” schierati nell’ampio spiazzo del campo di Fossoli in attesa di salire sui bus che li avrebbero condotti alla stazione ferroviaria di Carpi.
Per saperne di più sulla genesi della composizione del libro di Mario la cosa migliore è chiedere a Roberto Cicala, oppure leggere il suo testo “Testimonianze sull’uscita di Un salto nel buio di Mario Bonfantini” presente nell’edizione Interlinea. È qui infatti, grazie alle abili ricerche detective dell’amico Cicala compiute consultando le carte Bonfantini depositate all’Istituto Storico Fornara di Novara (spulciando tra le lettere scambiate tra Mario e i suoi amici scrittori e ritrovando i manoscritti alla base dell’edizione prima dell’opera), che si scopre una storia curiosa, in cui ciò che viene dopo, la seconda parte, in realtà è stato scritto prima…
Ma riprendiamo il filo del discorso, ripartendo con il “tormentone” del mio intervento. Cioè il tema del testimone.
Il libro di Mario è dunque una testimonianza, il frutto di una memoria maturata negli anni di una storia vera. E maturata bene, come un vino di qualità e corposità, come avrebbe forse detto l’altro Mario – Soldati –, caro amico di Bonfantini, che con gli anni ha acquistato ancora maggiore gusto e carattere.
Un salto nel buio si colloca naturalmente nella letteratura della Resistenza, ma nel settore della memorialistica, che va ben distinto da quello di argomento resistenziale che nasce dall’invenzione romanzesca.
Qui, nelle pagine di Mario, di romanzesco ci sono i fatti stessi della vita vissuta e la capacità dello scrittore di narrarli con gusto letterario, con bella scrittura, con il giusto ritmo.
Non voglio con questo dire che la letteratura di testimonianza sia esteticamente superiore al filone d’invenzione; se però si vuole andare alla scoperta o riscoperta di cosa sia stata davvero la lotta di liberazione nazionale antifascista, allora è alla letteratura dei testimoni, che parlano di sé e di ciò che hanno visto e vissuto in prima persona, che bisogna rivolgersi.
E il libro di Mario è una fonte ancora fresca, come una di quelle sorgenti delle montagne da lui tanto amate, che contiene molte verità: piccole e grandi, private e pubbliche.
Quelle private, personali, raccontano aspetti della biografia dell’autore, il suo carattere, i suoi gusti. Ci spiegano per esempio perché fu lui il solo prigioniero a compiere il temerario salto da quel treno in corsa verso la Germania.
Quelle pubbliche ci raccontano invece dei tempi, di una società italiana che si è ribellata al regime fascista e all’occupazione tedesca.
Tra gli esempi più rilevanti di questa verità storica sono proprio da citare i prigionieri del capannone di Fossoli dove è detenuto anche Mario. È un campione casuale, eppure altamente rappresentativo di chi fossero gli antifascisti, dal punto di vista dell’appartenenza politica-ideologica, ma anche generazionale e di classe. Socialisti come Mario, naturalmente, ma anche comunisti, azionisti, repubblicani, liberali, cattolici. Uomini maturi, come Mario, rappresentante di un solido antifascismo familiare, ma anche giovani, ragazzi di sedici anni e anziani, rappresentanti quest’ultimi dell’antifascismo storico. E poi intellettuali, borghesi, operai, militari, industriali, addirittura piccoli delinquenti.
A farli compagni non è solo la sventura, la prigionia, ma la non casuale opposizione al fascismo e ai nazisti, che li ha portati tutti a essere rinchiusi a Fossoli.
Oserei dire che è in questi campi di concentramento, come nei luoghi di confino degli anni precedenti, e naturalmente nelle tante bande partigiane protagoniste della lotta di liberazione, che rinasce la democrazia, che sorge un sentimento di solidarietà e vicinanza politica e umana che porterà quale traguardo ideale massimo alla stesura di una Costituzione democratica e progressista, inclusiva di tutte le ideologie antifasciste.
C’è un’altra verità pubblica da ricordare, contenuta nella seconda parte del libro, che narra del cammino compiuto da Mario, dopo il salto dal treno, per raggiungere una casa sicura, quella del commendator Gianfranco a Bardolino sulle sponde del lago di Garda.
Ebbene Mario trova lungo il suo cammino sempre qualcuno pronto a dargli una mano, a ospitarlo, a sfamarlo e alla fine anche a trasportarlo in calesse. È la dimostrazione che i resistenti, saranno pure una minoranza, si muovono tuttavia nel popolo come pesci nell’acqua, come avrebbe detto il presidente Mao Tse-Tong. C’è insomma una vasta simpatia, una solidarietà di fondo della popolazione civile, che permette e permetterà alla Resistenza italiana, armata e non, di sopravvivere alla repressione nazifascista, di crescere e infine trionfare il 25 aprile del 1945.